La fede non deve essere vissuta come rischio o scommessa, ma come certezza vitale, come tesoro nascosto, come intimo segreto, frutto di profonde  esperienze che crescono pian piano lungo tutta una vita.

Tutto passa solo Dio resta.

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SIAMO SERVI POVERI DI UN SIGNORE DA CUI TUTTO PROVIENE: L’UMILTA’ NEL SERVIZIO

Sulla base della parola di Gesù, il servizio e l’accoglienza diventano ancora uno strumento di risposta all’amore di Dio: accogliere e servire il fratello vuol dire accogliere e servire Gesù

(cfr. Mt 25,40), e Gesù dice: “Chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato” (Gv 13,20).

L’umiltà e la gratuità sono gli unici criteri perché il servizio sia credibile, sono gli unici criteri di genuinità e di evangelicità del servizio.

Gesù dice che siamo servi inutili (Lc 17,10): traducendo meglio si deve dire “semplici servi”, “servi senza diritti”. Il problema di sempre è: “A che cosa servo? Quale servizio mi fanno fare? Quale servizio mi affidano con responsabilità?”.

Dimentichiamo che noi non siamo definiti dal servizio che siamo chiamati a svolgere, noi siamo definiti dall’essere servi del Signore. Siamo sempre preoccupati più delle cose che siamo chiamati a svolgere e fare che non di colui che ci chiama al suo servizio. Ci interessa noi stessi e non Dio. Allora ricerchiamo i servizi più gratificanti, quelli più riconosciuti come degni e nobili. Tramite il servizio vogliamo sentirci realizzati, dimenticando che tutta la grandezza dipende da colui al cui servizio siamo chiamati.

Gesù dice: “Tra voi però non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore, e chi vuol essere il primo sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43-33). Può essere legittimo ricercare la realizzazione nel servizio, ma il modello deve rimanere Gesù e la misura del nostro comportamento deve essere ancora la croce; Gesù è il servo perfettamente realizzato ed è il Crocifisso.

Siamo proprietà di Dio, ma tante volte ci comportiamo da schiavi dell’attività che svolgiamo. Facciamo un servizio e questo ci viene tolto: ci viene a mancare tutto, ci troviamo spaesati, delusi, pensiamo di essere stati mortificati, oppure, quanto meno, di avere sbagliato tutto. Ma noi non apparteniamo al servizio, che appunto può anche esserci tolto; noi apparteniamo a Dio. Tendiamo sempre a confondere Dio con le cose di Dio: sono realtà diverse.

Anche quando, pur essendo disponibili, non ci danno niente da fare oppure non ci assegnano determinati servizi, ci sentiamo delusi, amareggiati, deprezzati.

Facciamo pesare che vengono dati ad altri servizi che competono a noi, che altri vengono ingiustamente considerati più bravi di noi, ecc.

Tutto questo è un segno che il primato ce l’ha l’attività, non ce l’ha Dio. Così perdiamo quella libertà e quella dignità che Dio ci dona e ci chiede: “Va’, vendi quello che hai, libera il tuo cuore da queste cose, poi vieni e seguimi”.

Siamo servi senza diritti, servi poveri di un Signore da cui tutto proviene. Sono parole dure, difficili da digerire, ma Gesù richiama la nostra attenzione su questo fatto: non crediate che, perché avete lavorato, Dio debba essere in debito nei vostri confronti.

Dio non è mai debitore nei nostri riguardi: anche questo qualche volta ci può dare un po’ di fastidio. Questo succede perché perdiamo il senso di Dio.

Dobbiamo capire questo: quand’anche noi avessimo fatto tutto quello che dovevamo fare (chi lo può dire?) e avessimo fatto bene, con retta intenzione, tutto quello che dovevamo fare (chi lo può dire?), alla fine dobbiamo dire: sono un semplice servo, un servo povero, senza diritti.