Per il cristiano e per ogni essere umano di buona volontà, scrutare i "segni dei tempi" significa cogliere i segni di una liberazione che si compie nella storia, segni che già anticipano la tensione verso il Regno Alcuni segni di liberazione nell'attuale società Un radicale cambiamento dei flussi di comunicazione Il confronto con le differenze La caduta dei blocchi ideologici Un'accresciuta sensibilità nei confronti dell'equilibrio ambientale L'esigenza della pace E una dimensione che ha anche un impatto sulla vita familiare: la necessità di saper convivere con la malattia, in un tempo che è andare verso il morire.
Una riflessione sui "segni dei tempi" mi sembra importante per tre motivi:
1. innanzitutto il riferimento dell'espressione è evangelico (Mt 16,1-3) e sta ad indicare l'attenzione verso ciò che è accaduto di più importante per i cristiani, e cioè il punto di incontro di Dio con la storia, nella venuta di Gesù;
2. in secondo luogo il riferimento al Concilio Vaticano II e al pontificato di Papa Giovanni XXIII che tanto hanno cambiato lo stile e la presenza dei cristiani nella società. Oserei dire che sono pagine mai sufficientemente riproposte, talora ancora inesplorate, qualcuna forse interessatamente già dimenticata;
3. in terzo luogo, il riferimento ai segni dei tempi rimanda all' intuizione che non c'è fede senza storia, non c'è salvezza senza storia, non c'è teologia senza storia, perché la fede è risposta ad un evento e la salvezza è evento essa stessa. Il cristianesimo non è un sistema di idee, né di dogmi, ma un'economia di salvezza. Per i cristiani, l'incontro con Dio si realizza nella storia, là dove germogliano quei segni del progetto del Regno che, seppure andrà oltre la storia, è però in essa che pone le sue radici. Il Dio in cui crediamo è un Dio incarnato, che ha preso le nostre sembianze, ha accettato la sfida del dolore e della fragilità umana, dando un significato nuovo alle nostre sconfitte e consentendo che la morte non fosse la conclusione di tutto.
Proprio nell'impegno per la liberazione, per la quale siamo chiamati a testimoniare la nostra fede, siamo convocati a scrutare quei segni che già anticipano la tensione verso il Regno e la sua liberazione. Scrutare i segni dei tempi è però un mestiere difficile, che richiede grandi capacità di discernimento, ed è un mestiere rischioso, perché spesso Dio si nasconde proprio là dove gli uomini non Lo vogliono vedere, là dove l'umanità è più esposta alle sue contraddizioni, là dove la liberazione si consuma nella martirya.
Cerchiamo dunque, con molta umiltà, di intuire, di proporre alcune suggestioni, di tracciare, con l'incertezza del segno di chi teme di non avere abbastanza fede, alcuni aspetti del nostro mondo che ne stanno cambiando il volto e che possono essere la testimonianza di quel costante e progressivo percorso di liberazione che apre al Regno di Dio; un percorso che non sempre ci è chiaro e che spesso noi riusciamo a rallentare, a farlo diventare ambiguo, incerto, contraddittorio, ma che comunque cresce nell'amicizia del Padre. Vorrei sottolineare questa capacità che abbiamo di rendere contraddittori questi segni, perché essi stessi vivono ancora sotto il segno del limite, del peccato; noi però cercheremo di coglierne quel segno di fecondità che è incancellabile nonostante la nostra infedeltà, perché è espressione del passaggio di Dio, della sua provvidenza, dentro la storia.
Il cambiamento radicale dei modelli di comunicazione umana e dei flussi informativi
La prima considerazione nasce dalla constatazione di come sia modificata oggi la comunicazione fra gli uomini e il flusso delle informazioni. Ormai ogni nostra casa è in grado di avere una finestra aperta sul mondo; la velocità di comunicazione delle notizie è strabiliante, e la distanza geografica, che nei secoli ha separato popoli e culture, attivando la sete dell'avventura e il desiderio della scoperta, è solo uno spazio che può essere bruciato da poche ore di aereo o dal lampo delle telecomunicazioni.
Sembra ormai preistoria, ma è solo questione di qualche decina di anni fa, quando la gente dei nostri paesi di montagna prima di scendere nelle città della pianura dettava il proprio testamento, o quando i nostri giovani, spinti dalla povertà, si imbarcavano su incerte e lentissime navi per l'America in cerca di una fortuna che per molti era senza ritorno; o quando ancora le madri aspettavano per mesi e anni le notizie dal fronte. Oggi è possibile conoscere e vedere tutto in tempo reale, i satelliti ed Internet ci portano in casa ogni frammento di mondo e non possiamo più accampare la scusa di non sapere. La distanza fra gli uomini si è accorciata e oggi vediamo la sofferenza delle nostre periferie alla stregua di quello che accade nel sobborghi di Soweto, o nella regione dei grandi laghi africani, o nelle camere della tortura dell'America Latina. Non possiamo più accampare la scusa che la sensibilità verso la fatica del vivere è proporzionale alla distanza, perché, di fatto, la distanza non esiste più.
Grazie alla velocità, oggi i popoli del mondo sono più vicini, e se è vero che essere più vicini non vuol dire di per sé essere più solidali, è vero però che la vicinanza ci costringe a vedere, a condividere, a sentirci partecipi di un destino comune.
Il confronto continuo con la differenza
La velocità delle comunicazioni si accompagna ad un analogo fenomeno del nuovo millennio: la acutizzazione dei flussi migratori dei popoli verso nord e verso occidente. Non abbiamo lo spazio per analizzare le cause e la complessità di questo fenomeno imponente che sta cambiando il volto della vecchia Europa e che sta ponendo infiniti problemi di giustizia, di economia sociale, di identità culturale... Ci limitiamo a sottolineare che la presenza accanto a noi di altre razze, di altre culture, di altre religioni ci costringe ad un confronto continuo con la differenza. Ecco un altro segno dei tempi che costringe l'umanità a stare fianco a fianco nella diversità, ad accogliere accanto a noi, nel luogo di lavoro, nella scuola, nel tempo libero, nella politica ciò che ha colori, sensibilità, gusti, desideri diversi dai nostri. Ci stiamo avviando a grandi passi verso una società culturalmente e religiosamente pluralista, diversificata. Entriamo in un'epoca in cui viene chiesto a tutti una forte esperienza di diversità, di alterità, di complessità, di molteplicità. Forse noi cristiani non siamo preparati a questo, forse siamo condizionati da sedici secoli di uniformità: uniformità come legge, bisogno, cemento della cristianità da Costantino in poi. Nonostante l'aspirazione alla "cattolicità" viviamo il paradossale complesso dei fines, dei confini; un'antica colletta per la pace chiedeva di tenere i nemici ad fines christianorum, ai confini dei cristiani. Se una certa pluralità, legata a ruoli e funzioni, era ammessa all'interno della vita ecclesiale, essa non veniva tollerata quando proveniva dall'esterno; pensiamo all'espulsione degli eretici, alla ghettizzazione dell'ebreo o alla rigidità del ruolo femminile la cui alterità percorribile era solo la via mistica; l'invasione del campo sociale della polis cristiana costò il rogo a Giovanna d'Arco.
Eppure l'esistenza è differenza, proprio per la unicità e l'individualità di ognuno, ed è solo la differenza che fonda ciò che consente il flusso della comunicazione, che consente il dialogo; che cosa potrei comunicare a chi è uguale a me stesso? Quali novità potrei proporre a chi già le conosce? Ciononostante, la differenza ha sempre per noi il profilo di una minaccia, di una provocazione che scatena in noi il tentativo dell'emarginazione o, peggio ancora, dell'in-differenza, cioè l'incapacità di capire la diversità, costringendoci a diventare ciechi di fronte ai segni dei tempi. Ora il nostro mondo è divenuto la patria di molti che recano con sé il loro bagaglio di povertà economica, assieme a tanta voglia di vivere, a tanta giovinezza, a tanta fecondità, a tanto desiderio di riscatto, a tanto orgoglio per la propria identità. Tutto ciò interroga la nostra universalità, la nostra capacità di condivisione, la forza della nostra solidarietà, interroga ancora la nostra verità, ma soprattutto la nostra carità che è l'unica via per costruire la verità.
La caduta dei blocchi ideologici
Un terzo passaggio che caratterizza la cultura del nostro tempo è la caduta dei blocchi ideologici avvenuta con la mitica frantumazione del muro di Berlino. L'ultimo squarcio di secolo ha veduto sciogliersi la morsa di gelo che caratterizzava le relazioni tra il mondo dell'ovest e il mondo dell'est. Anni di relazioni internazionali difficili, di corsa irragionevole all'accumulo di arsenali militari, tanto da vantare la possibilità di distruggere il mondo decine di volte, quasi che l'umanità fosse un'araba fenice capace di risorgere dalle proprie ceneri. Decenni di politica internazionale contaminata dalla lotta tra occidentalismo e comunismo, che ha impedito lo sviluppo dei popoli poveri e che ha sempre guardato con diffidenza al grido di giustizia e di pace del terzo mondo. Lotta ideologica senza esclusione di colpi che ha congelato la democrazia e lo sviluppo dei popoli extraeuropei in cambio di una falsa solidarietà mascherata da colonizzazione culturale, militare e politica. Lotta ideologica che ha tarlato anche le grandi democrazie europee che, in nome della difesa dal comunismo, hanno accettato le più basse mediazioni e hanno tollerato anni di corruzione politico-amministrativa. Lotta ideologica che ha preparato e sostenuto il terreno degli anni di piombo, delle stragi senza nome, della commistione con gli interessi delle mafie internazionali.
Ora siamo liberi dai fantasmi di questo recente passato, siamo stati messi nella condizione di uscire dalla lettura della storia e della politica condizionata dall'ideologia, non abbiamo più scuse per guardare con sincerità alle nostre contraddizioni di uomini cresciuti in quel benessere economico costruito sull'appropriazione della maggior parte delle risorse del mondo. Non siamo più giustificati a pensare che il grido dei poveri sia contro la nostra libertà, sia manovrato da forze occulte che minano la nostra stabilità democratica. Il bisogno di giustizia sale a noi, interpella le nostre coscienze, scardina le nostre sicurezze, fa vacillare in noi la certezza di essere nel giusto, che il nostro modello di società nordoccidentale sia il migliore e non possa essere purificato dall'egoismo e dall'autosufficienza che lo caratterizza. La libertà dall'ideologia ci permette di pensare alla restituzione di quanto abbiamo sottratto ai popoli poveri con la forza delle nostre ragioni economiche e militari. L'anno santo che abbiamo appena celebrato è stata un'occasione che la Chiesa ha consegnato al mondo dei ricchi per annullare il debito che soffoca lo sviluppo dei popoli poveri e porre le basi per relazioni internazionali rinnovate atte a costruire nuovi modelli di crescita e di democrazia per il nuovo millennio.
Il rispetto dell'ambiente, contro lo sfruttamento selvaggio delle risorse
Un quarto segno di liberazione viene dall'accresciuta sensibilità che oggi manifestiamo verso la conservazione dell'equilibrio ambientale ed il rispetto della natura. Dopo anni di sfruttamento selvaggio, indiscriminato ed ingiusto delle risorse del nostro pianeta è cresciuta in noi la coscienza non solo della iniqua distribuzione delle risorse, ma che esse stesse non sono infinite. La nostra vita dipende da quella dell'acqua, dell'aria, della vegetazione, degli animali; le nostre singole esistenze sono integrate dentro un complesso sistema di equilibri vitali la cui rottura può esserci fatale. Ecco allora lo sforzo comune di governare lo sviluppo economico dentro un modello compatibile con la conservazione dell'ambiente, verso un utilizzo delle risorse motivato e sapiente, verso un consumo sobrio e misurato sull'indispensabile. Ciò comporta un cambiamento radicale nella politica dei consumi che i paesi nordoccidentali hanno finora perseguito; un cambiamento che, oltre la giustizia, persegua il rispetto per tutte le forme di vita presenti sulla terra. Tutto ciò oggi non è soltanto patrimonio dei gruppi ecologisti o di gruppi politici settorializzati, ormai appartiene a veri e propri programmi governativi, ai programmi di sviluppo delle aziende, è entrato nei bilanci comunali e soprattutto nella mentalità delle nostre famiglie, sempre più attente agli sprechi, allo smaltimento dei rifiuti, ad un uso oculato dei consumi. Andiamo così verso un modello di vita in cui non siamo più gli sfruttatori, ma i custodi dei beni della creazione secondo l'antica tradizione biblica che, per l'iniziativa di Dio, ci ha affidato in dono il pianeta perché lo amassimo e lo considerassimo il luogo della nostra felicità (cf Gn 2,15). Tutto l'universo soffre con noi e per noi e, assieme a noi, attende il riscatto finale, anch'egli quindi ha diritto a dei segni di liberazione che diano il senso e il movimento della storia verso la pienezza dei tempi (cf Rm 8,22-23).
Le esigenze della pace
La seconda metà del XX secolo è vissuta nel ricordo del dramma degli orrori della seconda guerra mondiale e nella memoria dell'imperdonabile olocausto degli Ebrei. Sebbene la guerra abbia continuato a lasciare le sue cicatrici in molte regioni del mondo e, recentemente ancora, nel cuore dell'Europa,non possiamo non osservare che le relazioni politiche fra le nazioni e la coscienza individuale si sono fatte via via più sensibili alle esigenze della pace. La pace è diventata, nel cuore delle relazioni diplomatiche, un'opzione politica che ha consentito di cambiare la strategia di approccio ai conflitti fra le nazioni. Ciò non solo e non tanto per la volontà dei governi, quanto piuttosto per la maturazione di una partecipazione collettiva ai processi di pace. La diffusione nelle coscienze della necessità di strutturare vere e proprie strategie di pace ha portato alla mobilitazione di grandi energie popolari che hanno influito nelle decisioni della politica internazionale. I movimenti di volontariato e le associazioni per la pace sono cresciute a dismisura così come la generosità delle singole persone che hanno dimostrato, anche recentemente, grande spirito di solidarietà di fronte ai drammi della guerra e della povertà. Tante piccole realtà hanno saputo catalizzarsi, mettere in comune le proprie energie in una sorta di ecumenismo della pace e soprattutto hanno saputo trasformare la generosità e i sentimenti di solidarietà in strategia politica, in sforzo diplomatico; in molti è cresciuta la capacità di associare lo sforzo per l'aiuto immediato e concreto con la necessità di un'analisi politica che sapesse ricercare le radici dei conflitti e dell'ingiustizia; pensiamo all'esperienza piccola, ma esemplare, di realtà come la Comunità di S. Egidio, o il Gruppo Abele, dove lo spazio all'amicizia, alla solidarietà verso la persona ha saputo accompagnarsi all'elaborazione di strategie di coinvolgimento della diplomazia o della politica ufficiale, capaci di cambiare leggi e programmi degli stati. Siamo coscienti che vi è ancora molta strada da fare, ma la maturazione fin qui ottenuta segna ormai un processo irreversibile per il quale le tensioni tra i popoli e le culture non possono trovare altra via di soluzione se non la trattativa politica e la diplomazia che mettano al bando la guerra come strumento di soluzione dei conflitti. Lo sforzo per il disarmo e il continuo rilancio dell'azione diplomatica dell'ONU sono la prima espressione concreta di questo instancabile desiderio della pace che nasce dal basso.
Una nuova condizione antropologica: convivere con la propria malattia
Un'ultima suggestione viene dal delicato punto di osservazione che è dato dal mio lavoro di medico. A fronte di una cultura che tende ad occultare la dimensione della sofferenza, di fatto, oggi, viviamo nel tempo della malattia. L' aumento della vita media, il miglioramento delle condizioni di vita, la possibilità di una tecnologia medica molto efficace ha dilatato la distanza fra la comparsa della malattia e la morte. Fino ad un recente passato l'ammalarsi voleva spesso dire concludere rapidamente la propria vicenda, cosa che spesso ancora accade nel sud del mondo, ma oggi capita di convivere per un lungo periodo, anche anni, con la propria malattia, in un tempo che è un andare verso il morire. Si è creata così una condizione antropologica, il vivere assieme alla propria malattia, che l'umanità non ha mai conosciuto in maniera così diffusa e prolungata. Nasce allora per molti di noi il bisogno di trovare un senso dentro a questa storia, così difficile da capire e da accettare; un senso che spesso sentiamo entrare nel mistero, di fronte al quale fatichiamo ad esprimere parole e gesti significativi. Quale senso dare ad una vita che sembra ormai uscire dai cicli del fare, che non ci vede più capaci di gestire il nostro tempo, il nostro corpo, di una vita in cui la stanchezza sembra assumere il ruolo di principale protagonista? L'infermità e la cronicità sono divenuti un altro segno dei tempi. Non riesco ad immaginare una risposta razionale a tutto questo, sento che le parole non dicono più nulla di fronte alla sofferenza e che soprattutto non sanno spiegare. Vorrei allora raccontare la storia di un amico che, ormai vicino alla fine della sua lunga storia di malattia, ci ha scritto:
" ... Nella confidenza di un giorno, uno dei lunghi giorni della sua malattia senza ritorno, ci si chiedeva insieme che senso dare a questo tratto ultimo che è il vivere che va verso il morire. Per non subirlo e renderlo esso pure momento di vita. Si constatava, ed era sapienza singolare anche solo porre la domanda, una cosa molto semplice. Tutti viviamo per voler bene. Il nostro lavoro, la nostra fatica, le nostre preoccupazioni, tutto il nostro fare ci impegnano a creare le condizioni perché questo bene ci sia e accada.
Così passano i giorni e gli anni e, il più delle volte, ci si rende conto che il "fare per" ha finito di rendere secondario il bene che si voleva costruire. Reso di fatto secondario.
Questa la conclusione. Il tempo della malattia che porta alla morte è un tempo in cui nessuno può fare nulla per chi è ammalato, e l'ammalato non può fare nulla per chi gli sta vicino. Perché ormai il fatto è irreversibile e non può essere smentito. Accade, allora, che questo tempo sia finalmente il tempo in cui si è chiamati ad amare perché non è data nessuna altra possibilità. Un tempo dove ciò che conta è il cuore reso libero da ogni altra preoccupazione".
Desidero concludere qui, vivendo la speranza che la nostra vita esprima questo segno del cuore e con l'augurio che essa possa sempre testimoniare l'amicizia, segno di un'umanità riconciliata che corre verso la pienezza di un incontro definitivo e radicale.
Gian Antonio Dei Tos Medico - Antropologo - Vittorio Veneto(Treviso)