Se lo spazio della libertà è il terreno dell’io, quello della responsabilità è il terreno dell’altro.La riflessione su questo compito ci chiama a prenderci cura dell’altro, a rispettarlo, ad aiutarlo e nel contempo a stimolarlo,richiamandolo alle sue responsabilità, ma evitando di omologarlo e di colonizzarlo.
Responsabilità come prendersi cura dell'altro Rispettandolo, per permettergli di essere "diverso" e dì decidere la propria vita Nella tolleranza, perché nessuno può mai essere omologato -Aiutandolo e stimolandolo, ma senza colonizzarlo.
Il senso di responsabilità
La vicenda storica dell'Occidente è segnata dalla ricerca della libertà, ma forse ha meno evidenziato il valore della responsabilità.
La libertà è stata intesa come spazio per potersi esprimere, realizzare, affermare. Senza di essa il soggetto non può sprigionare le sue possibilità e potenzialità e quindi l'impegno umano si è indirizzato ad affrontare e superare tutti gli ostacoli che potessero limitare questa libertà. t stata ed è una lotta immane contro i condizionamenti esterni, quali il potere politico ed anche religioso, le strutture economiche o sociali che possono impedire la persona nella sua autorealizzazione; anche contro i condizionamenti interni, quali l'ignoranza, ritenuta il principale freno e blocco nel cammino emancipatore della coscienza.
Questo sforzo dell'uomo per rivendicare la libertà, non potrebbe trasformarsi in schiavitù? Da questa nobile aspirazione dell'uomo ad essere libero non sono forse nate anche lotte e guerre? La ricerca della mia libertà non potrebbe diventare indifferenza o, peggio, soffocamento di quella altrui? La storia dell'umanità non è intessuta di scontri di diverse libertà che hanno tentato di sormontarsi e di competere? Lo scontro non si risolve nella vittoria del più forte, con l'emarginazione o l'eliminazione del più debole? E la mia libertà, d'altra parte, può esistere o può crescere senza quella dell'altro o degli altri?
Queste domande devono costituire il nostro tormento e la nostra inquietudine. La libertà poggia sull'io che tende ad emergere e a definirsi senza preoccuparsi dell'altro, se non addirittura per esclusione di lui. Si radica nella ricerca della propria identità. Dovremmo lasciare questo terreno della libertà (il terreno dell'io), per addentrarci in quello della responsabilità (il terreno dell'altro). Questo spostamento d'attenzione non vuole porsi contro la libertà dell'uomo, ma come liberazione di essa o sua "disubriacatura", Tale "disubriacatura" può chiamarsi "responsabilità": ossia prendersi cura dell'altro.
Il valore del rispetto
Una delle conquiste culturali dei nostri anni è il rispetto dell'altro. Rispettare l'altro vuol dire anzitutto permettergli di essere diverso, di poter vivere con la sua libertà, decidendo in proprio della sua vita. Il termine che può descrivere tale atteggiamento è "tolleranza". Oggi questo valore sembrerebbe addirittura insufficiente, perché disegna un atteggiamento di distanza dall'altro, se non di indifferenza. Questo è vero. Però, se pensiamo ai secoli di intolleranza da parte della cultura sociale, anche cristiana, per cui chi pensava diversamente era emarginato, giudicato, condannato, parlare di tolleranza ha ancora un respiro vitale. L'invíto a imparare ad ammettere e rispettare idee, culture e persone diverse è ancora importante da proporre e da vivere. Non sempre e non dappertutto è stato accolto, neppure dentro la Chiesa. Gli scontri, le condanne, le guerre sono stati spesso il segno della volontà di omologare e obbligare le persone ad un unico pensiero e ad un'unica visione di vita.
Quello di educarci alla differenza è un progetto di vita ecclesiale e sociale ancora in buona parte da sognare e da realizzare, anche se in questi ultimi tempi stanno crescendo incoraggianti germogli.
La tolleranza: perché?
Da dove nasce l'aspirazione alla tolleranza? Anzitutto dal disagio delle persone nel dover sottostare ad un'unica visione della vita. Perché essere obbligati a pensare nello stesso modo? Dove vanno la dignità e la responsabilità?
Il secondo impulso viene dall'intuizione che ogni persona è unica, irripetibile e, quindi, non può mai essere omologata o assimilata ad altre. Essa ha un apporto specifico e originale da offrire alla comunità e all'umanità. La differenza è un valore da coltivare: non solo per rispettare la libertà delle persone, ma anche per consentire a ciascuna di dare il suo singolare contributo alla ricerca della verità.
Il terzo stimolo proviene dal "pensiero debole". Oggi c'è, da più parti, un deciso rifiuto nei suoi confronti, perché sembra orientato al relativismo e al disimpegno. Che questo sia un rischio non si può nascondere, perché ognuno può essere indotto effettivamente a fare la sua strada o compiere le sue scelte senza guardare gli altri. t un atteggiamento che potrebbe creare l'indifferenza fra le persone e, alla fine, manifestare il trionfo dell'io, in quanto ciascuno agisce come pensa, senza tenere conto delle esigenze dell'altro e senza, soprattutto, valutare gli apporti che gli possono arrivare da fuori. Però il pensiero debole contiene, a mio avviso, una dimensione molto positiva: quella del primato della realtà e della storia (e, alla fine, della verità) di fronte al pensiero. Il pensiero umano deve sentirsi e riconoscersi debole di fronte alla storia e di fronte a Dio (per chi è credente). Non può mai ritenersi forte, assoluto, perché la realtà è sempre più grande di ogni pensiero e di ogni concettualizzazione, anche teologica. Solo un pensiero "debole" consente all'uomo di camminare incessantemente verso la verità, perché si lascia interrogare e scompigliare. Il pensiero forte, invece, tende a non ascoltare in profondità il reale, mortificandone la ricchezza di alterità, per cercare di inglobarlo nelle proprie strettoie. E' l'atteggiamento, nella Bibbia, degli amici teologi di Giobbe che volevano ridurre la realtà ai propri pensieri e principi, mentre Giobbe si era accorto che questi non potevano reggere di fronte alla realtà, e quindi dovevano essere corretti o cambiati.
Rispettare l'altro o stimolarlo?
Come comporre l'esigenza di rispetto dell'altro e della sua differenza con il dovere, insistentemente evocato dalla attuale cultura, di assumere la responsabilità della vita e delle scelte altrui, anche nei riguardi del coniuge? Come mettere insieme rispetto e intervento correttivo? Sembra un interrogativo senza risposta e, forse, non si deve cercare la quadratura del cerchio. Occorre però tenere sempre presenti i due poli: il rispetto e la responsabilità.
A questo proposito tenterò di esprimere qualche mia riflessione. L'altro è differente, ma non può mai essermi indifferente. Dice il filosofo Lévinas che "l'amore è prendersi cura del destino dell'altro". Qui la parola "destino" indica il progetto dell'altro, la sua vocazione, quello che egli è chiamato a diventare. Nella vita di coppia lo sposo è chiamato a sviluppare il potenziale presente nella sposa (e viceversa). E' il primo responsabile di questo fiorire. Se non lo fa, non la ama. 1 due sono invitati ad essere differenti, ma non ad essere indifferenti l'uno verso l'altro. Il far crescere, il liberare appartengono all'essenza dell'amore. E quello di coppia è il segno di tutti gli altri tipi di amore.
Qui nasce, però, la difficoltà: devo liberarlo in base alle mie idee e progetti o in base ai suoi? Se tento di farlo a partire dalle mie prospettive, come posso dire di rispettare la sua differenza e libertà? E se cerco di liberarlo in base alle sue idee che ritengo errate, come posso dire di amarlo? Come aiutarlo a liberarsi di ciò che è negativo, rispettando la sua differenza e libertà? Come dare un apporto alla sua evoluzione, senza colonizzarlo?
Alcuni criteri orientativi
1) Ci devono essere prima la stima e l'ascolto. Senza un clima di considerazione e di fraternità, ogni intervento verrebbe sentito come censorio e, quindi, facilmente respinto. Ci deve essere anzitutto l'ascolto affettuoso dell'altro: egli deve scoprire che non lo si vuole catturare e impoverire, ma che si intende dargli una mano generosa perché possa guardarsi dentro. Mi pare anzi di poter dire che, quando una persona è amata ed accolta così com'è, senza pretesa di un suo cambiamento e conversione, sarà essa stessa ad avere il coraggio e la forza di guardarsi dentro per discernere che cosa non va o ciò che può farla crescere. A stimolarla non saranno tanto le parole, ma l'amore dell'altro. là quanto è accaduto con Gesù. Egli amava i peccatori, mangiava con loro. Questo (e non tanto le sue parole) ha suscitato in loro la voglia della conversione.
2) Occorre il "delicato" coraggio di dire il proprio pensiero. L'amore all'altro non può ridursi ad una vuota accoglienza: è sì un'apertura al suo pensiero ed al suo modo di progettare la vita, ma è anche un offrirgli le proprie idee, la propria visione di vita. Non c'è autentica accoglienza senza il dialogo ed il confronto. L'amore è stimolare l'altro perché possa manifestare o ravvivare le proprie potenzialità. Nessuno cresce senza stimoli esterni, nessuno basta a se stesso. Trovare persone o ambienti che ti sappiano accogliere come sei, ma anche che sappiano risvegliare i tuoi doni o correg gere i tuoi difetti, è un'opportunità di incalcolabile valore. Forse oggi, a causa del rischio di intolleranza o di intromissione odiosa nella vita delle persone, si insiste sul valore del rispetto della libertà; ma sarebbe una penalizzante carenza d'amore, se questo rispetto non fosse accompagnato da una presenza interrogante e stimolatrice. Un genitore che, per rispetto del figlio, lo lasciasse addormentare nella sua pigra passività, non dimostrerebbe amore. Ciò vale pure nei rapporti tra sposi e tra amici. Indubbiamente nell'esprimere le proprie idee bisognerebbe escludere ogni forma di perentorietà e di assolutezza. Tale accortezza non dovrebbe essere adottata come strategia perché l'altro non si senta offeso e possa meglio recepire il richiamo, ma dovrebbe nascere dalla consapevolezza che non sempre è vero che ciò che noi pensiamo sia tutta la verità, o che ciò che suggeriamo sia l'azione più giusta. Occorre, anche in chi propone o critica, il senso della fallibilità e della provvisorietà. Chi può assicurare che il proprio modo di vedere le cose sia l'unico giusto? Perché non dovrebbe essere il confronto, il luogo dove incomincia a dipanarsi l'opportuno cambiamento?
3) Si può tacere quando un membro della famiglia oppure un amico compie un' azione ingiusta contro un'altra persona? L'amore, e anche la fede, possono mai tollerare l'ingiustizia e il sopruso? L' amore della giustizia non può arrestarsi nemmeno di fronte all'affetto verso il partner e al legame con l'amico. Essi vanno amati comunque, ma non può essere approvata la loro azione ingiusta. t' quanto si coglie dal Vangelo: " Vi dico di non opporvi al malvagio" (Mt 5,39). Non ci si deve opporre al malvagio, ma alla malvagità sì. Tutti, i credenti per primi, devono rifiutare l'ingiustizia e l'oppressione: Gesù non si è rassegnato di fronte ad ingiustizie e privilegi, ma è stato ucciso perché vi si è opposto. La "non violenza" non è passività: è azione, impegno, sforzo. Gesù, però, ha amato l'oppressore, il crocifissore, distinguendo dunque la persona dalla sua azione. Ci si deve opporre all'azione disonesta, la si deve respingere perché non crei danno alle persone, ma si deve amare e capire chi la compie, perché facilmente è condizionato da mille fattori: l'ambiente, l'educazione, la famiglia, le frustrazioni; e soprattutto perché la persona è sempre e comunque recuperabile. L'amore è la forza che consente di rispettarla e, insieme, di promuoverla. Dice Gandhi: "Il nemico non va vinto, ma convinto". Un padre o una madre responsabili, se scoprono che un figlio commette azioni riprovevoli, si pongono certamente contro tale comportamento: non possono restare passivi, devono combatterlo. Ma lo combattono amando il figlio e, in questo modo, gli danno fiducia perché egli possa rinascere.
Il rapporto tra rispetto e responsabilità, tra tolleranza e intervento, rimane comunque problematico e aperto, domanda sempre attenta riflessione.
Battista Borsato