Celebrare la festa di Cristo Re dell’Universo è riflettere sul potere perché quando si parla di regalità viene spontaneo pensare al potere. Da una parte sentiamo che c’è una necessità del potere: non possiamo vivere in modo anarchico, senza regole, leggi, una struttura che guidi la nostra vita e quella delle nazioni. Dall’altra parte, anno per anno, constatiamo sempre di più il fallimento del potere nei confronti della vita concreta soprattutto degli ultimi, degli abbandonati, dei poveri. Il potere produce una certa stanchezza, disaffezione, un certo fastidio, non per il potere in sé, ma come viene realizzato e condotto. Siamo chiamati, in questa ultima domenica dell’anno liturgico, a riflettere su questa realtà che dovrebbe sempre essere al servizio degli uomini, soprattutto degli ultimi della terra. La storia, la nostra vita è fondata sul peccato come limite, come incapacità di vivere l’assoluto, ciò che darebbe senso autentico alla nostra esistenza perché la storia porta in sé la necessità del potere, della coazione e della legge, di identità culturali a cui non tutti gli uomini sono in grado di corrispondere, soprattutto quando misuriamo la cultura degli altri con la nostra, ritenendo la nostra cultura e civiltà superiore a quella degli altri, cosa che ormai è negata dai fatti e dalla storia.
Come uscire da questa tremenda realtà di peccato? C’è un’alternativa?
SI, il Regno di Dio. Gesù è venuto sulla terra a portare non un’altra religione, un’altra chiesa, ma il Regno di Dio, che come pregheremo con il prefazio è un «regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace». Già pronunciando queste parole ci rendiamo conto che sembrano parole dette da marziani, perché noi uomini non riusciamo a impostare il nostro mondo secondo criteri di giustizia, di amore e di pace. L’alternativa è proprio questa: l’unità fra gli uomini attraverso l’unica grande realtà che ci può salvare che è l’amore, che è per essenza l’antipotere. Il potere ha bisogno dell’obbligatorietà della legge mentre l’amore diventa l’unica strada che ci può aiutare a uscire dalla tremenda realtà di peccato che è la nostra vita e quella delle nazioni, perché l’amore è spontaneità, libertà, comunione, si nutre di profonde convinzioni della coscienza, come ho detto domenica scorsa, invece il potere è coazione, legge che si impone dall’esterno. Senza profonde convinzioni etiche e morali diventa difficile obbedire a una legge che ci viene imposta dall’esterno, addirittura, l’Apostolo Paolo dice che la legge è peccato è morte. Solo se siamo profondamente convinti dalla bontà della legge, che deve essere a servizio dell’uomo, soprattutto dei più deboli, saremo capaci di osservare la legge. Chi ha in sé profonde convinzioni di coscienza, non ha bisogno della legge, della coazione, della forza, perché agirà secondo queste profonde convinzioni che nascono dall’amore, dalla spontaneità e dalla libertà.
È interessante ciò che abbiamo sentito dalla lettera di Paolo, nell’ottica biblica c’è una stretta correlazione tra la morte e il potere: «Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza. È necessario infatti che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte». Prima dell’ultimo nemico, che è la morte, dovranno essere annientati altrettanti nemici come la morte, che sono i principati, la potenza e la forza. La prospettiva che ci propone Paolo oggi è di vita, che si raggiunge non con i principati, la potenza e la forza, ma solo con la grande realtà dell’amore. Con la croce e la resurrezione di Gesù Cristo viene abolita la necessità assoluta del potere, almeno come aspirazione. Quando Gesù è morto il velo del tempio si è squarciato in due: il tempio era l’emblema del potere religioso. Il tempio che viene abbattuto è la distruzione del potere non solo politico ma anche religioso.
Capisco che questo discorso è utopico, ma non possiamo non vivere di queste profonde aspirazioni dello Spirito. Dovremmo vivere come persone che non hanno bisogno, non hanno necessità del potere, né politico né religioso; è una aspirazione che dobbiamo alimentare nel nostro Spirito non per demonizzare il potere ma per aprirci a quella immensa dimensione che è l’amore che sola può dare senso compiuto alla nostra vita. Per questo, poiché il fondamento, il principio costitutivo del Regno di Dio è l’amore questo Regno di Dio lo dobbiamo costruire ora, deve essere presente in mezzo a noi, come dicevo domenica scorsa, attraverso il nostro impegno di far fruttificare i talenti. Il mondo è nostro e il mondo sarà come vogliamo che sia. I primo protagonisti della storia, della vita, dei rapporti fra le nazioni siamo noi. Il Regno di Dio che viene dopo è un’altra cosa. Siamo sempre stati abituati a pensare che qui siamo di passaggio e quindi ci adattiamo a qualsiasi cosa, tanto poi ci sarà il Regno di Dio.
È pura alienazione religiosa! Il Regno di Dio lo costruiamo adesso, perché se non siamo capaci di costruire oggi un regno di amore, di giustizia, di pace, di diritto è pazzesco pensare a un ipotetico Regno futuro di Dio. Veniamo alla bellissima pagina del Vangelo che abbiamo ascoltato. Il Regno preparato fin dalle origini è l’alternativa di Dio ai regni di questo mondo. Questa alternativa di Dio non è in “mente dei”, ma ha una sua struttura che si identifica con le opere del Regno: avevo fame, sete, ero straniero, malato, nudo, in carcere e tu hai fatto di questa mia sofferenza il progetto della tua vita, non hai voltato la faccia da un’altra parte, ti sei addossato la mia disperazione, solitudine, malattia, il mio essere rifiutato come straniero. La solidarietà con tutti coloro che sono stati messi fuori dal potere è l’atteggiamento che dovrebbe avere ogni uomo, ma ancor di più ogni cristiano.
Dovremmo essere solidali soprattutto con quelle persone che sono dimenticate, vilipese e rifiutate dai poteri costituiti. Pensiamo solo al nostro atteggiamento nei confronti degli stranieri «Ero straniero e mi avete accolto». Dovremmo essere capaci di vedere il mondo non con gli occhi del potere, ma con gli occhi dei poveri, dei disgraziati, dei reietti. La nostra fede non si esplicita solo nella confessione di fede ma nella nostra compromissione nei confronti dell’uomo. È interessante questa pagina del giudizio universale di Matteo, perché ci fa capire che quando andremo nell’aldilà Dio non ci chiederà nulla di religioso, se abbiamo creduto in Lui, se siamo andati a messa la domenica, se siamo ligi alle regole della chiesa cattolica, niente di tutto questo, ma se siamo stati capaci di riconoscerlo nel volto sofferente dell’uomo. Quindi il nostro credo non si realizza solo confessione di fede, ma nell’incontro con il povero, con tutti gli uomini svantaggiati della terra, indipendentemente dalle loro identità e appartenenze. Il Regno di Dio è laico, non è religioso, non ci sono i nostri e gli altri, quelli che appartengono alla nostra cerchia e quelli che non appartengono alla nostra cerchia religiosa, ma è laico perché investe il nostro impegno nei confronti di qualsiasi uomo senza nessuna distinzione.
Non si ha fede quando si dice “Signore Signore” ma quando si fa la volontà del Padre. Dobbiamo rendere il mondo come i poveri lo desidererebbero e non come lo vogliono i potenti della terra che opprimono, umiliano la dignità dei poveri e degli ultimi, soprattutto quando rispondono con la violenza e con la guerra. Oggi il mondo non è come lo vorrebbero i poveri. Questo è il fallimento della nostra fede e del cristianesimo. Dobbiamo alimentare questa grande speranza evangelica affinché il mondo sia vivibile e abitabile per tutti, soprattutto per coloro che sono scartati. Vorrei dire una parola sulla parte finale del Vangelo dove si parla di maledizione. In questo Vangelo le maledizioni richiamano la Genesi, l’omicidio di Abele il giusto. Chi non aiuta il fratello è un’omicida, lo dice anche l’apostolo Giovanni: «Chi odia il proprio fratello è omicida» (1Gv 3, 11-15). Ecco perché Gesù è così severo nei confronti di coloro che non riescono a immedesimarsi con la vita travagliati degli ultimi. Si parla di supplizio che significa mutilazione. È un’auto punizione che uno si fa quando si rende conto che non ha vissuto secondo le logiche del Regno di Dio.
Se Dio è amore, per riconoscere l’amore che è Dio, devo aver vissuto una vita di amore, ma se ho vissuto una vita di odio, di violenza, di guerra, di discriminazione, di divisione, se ho sputato in faccia alla gente invece che amarla, non è Dio che ci punisce, ci manda al supplizio eterno, come abbiamo sentito nell’ultima frase del Vangelo, ma siamo noi che ci autoescludiamo dalla vita eterna, perché non abbiamo creduto e difeso questa vita, amato la vita non solo la nostra, ma soprattutto la vita di quegli uomini e quelle donne a cui viene sistematicamente negata. Dio non ci chiederà mai se abbiamo creduto in Lui, ma se abbiamo amato come Lui. La chiave per entrare nel Regno di Dio resta sempre e solo quella dell’amore che dobbiamo realizzare nel presente cercando di essere uomini e donne di pace, di giustizia, di comunione e di amore. Chi ci spalancherà le porte del Paradiso saranno i poveri con i quali avremo condiviso la vita.