«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all'alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. 2 Accordatosi con loro per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna. 3 Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano sulla piazza disoccupati 4 e disse loro: Andate anche voi nella mia vigna; quello che è giusto ve lo darò. Ed essi andarono. 5 Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre e fece altrettanto. 6 Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano là e disse loro: Perché ve ne state qui tutto il giorno oziosi? 7 Gli risposero: Perché nessuno ci ha presi a giornata. Ed egli disse loro: Andate anche voi nella mia vigna. 8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: Chiama gli operai e dà loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi. 9 Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. 10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più. Ma anch'essi ricevettero un denaro per ciascuno. 11 Nel ritirarlo però, mormoravano contro il padrone dicendo: 12 Questi ultimi hanno lavorato un'ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo. 13 Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse convenuto con me per un denaro? 14 Prendi il tuo e vattene; ma io voglio dare anche a quest'ultimo quanto a te. 15 Non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono? 16 Così gli ultimi saranno primi, e i primi ultimi». Il ‘padrone di casa’ esce alle cinque del pomeriggio per chiamare operai a lavorare nella sua vigna, quando il lavoro nei campi termina alle quattro. Affinché i casi disperati, quelli che ‘nessuno ha mai preso a giornata’ (v. 7), i ‘perduti’, i falliti, i non idonei, gli irregolari possano anche loro sentirsi a casa nella ‘sua vigna’, egli esce oltre il tempo massimo. L’amore non si rassegna ad avere figli ‘disoccupati’, ovvero impossibilitati a portare frutto, a compiersi come esseri umani, a conoscere il compimento del cuore. A sera poi, giunge la resa dei conti. Tutti vengono retribuiti con la medesima moneta: un denaro, la paga giornaliera a quell’epoca. Ma alcuni – i primi – si lamentano del trattamento ricevuto. Sono questi i ‘primi della classe’, quelli che si ritengono buoni, giusti, onesti, puliti ma soprattutto meritevoli di un trattamento di favore da parte del loro piccolo dio in virtù dei servigi prestati. ‘Pensarono che avrebbero ricevuto di più’ (v. 10a). Ma “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie” dice il Signore (Is 55, 8 – Prima lettura di oggi). Nel mondo di Dio non è questione di più o di meno, di merito o di colpa, di essere buoni o cattivi, giusti o disonesti. Nei suoi confronti non c’è merito che tenga. Ciò che salva è sapersi una cosa sola con Lui, uno con l’Uno. Pensare l’amore di Dio condizionato dalla nostra statura morale è ricadere nella logica commerciale della religione. Siamo a prescindere divini, partecipi tutti – indipendentemente dal vissuto - del Tutto. A noi prenderne consapevolezza, e a quel punto si diverrà capaci di lasciare l’io e il mio. “Dilige et quod vis fac”. Ama e fa' ciò che vuoi, dice Agostino. Il dramma della religione è pensare che alcuni possano meritarsi l'amore di Dio un po’ più degli altri in virtù della propria prestazione, salvo divenire poi intransigenti e duri con gli altri che non ce la fanno e nei confronti del medesimo Dio ritenuto troppo buono con i lascivi e i peccatori. Dio non ama perché siamo buoni e capaci ma perché è l’Amore di cui siamo tutti impastati e dunque manifestazione. Insomma, l'Amore ama semplicemente perché non può farne a meno.