La fede non deve essere vissuta come rischio o scommessa, ma come certezza vitale, come tesoro nascosto, come intimo segreto, frutto di profonde  esperienze che crescono pian piano lungo tutta una vita.

Tutto passa solo Dio resta.



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Come viene recepita la parola di Gesù?


Un altro aspetto che emerge dal confronto è che talvolta si ha l’impressione che la comprensione della Parola di Gesù non vada oltre la nostra intelligenza, e non arrivi sino al cuore e tanto meno alle nostre mani. Prendiamo per esempio il perdono:
Gesù ne ha parlato, l’ha sperimentato, ma noi non accettiamo di essere “traditi”, non ridiamo fiducia, non siamo capaci a farne dono, il nostro orgoglio ferito è più forte della speranza che potremmo far vivere.
E che dire della solidarietà? Gesù ha condiviso la sua vita con le persone più emarginate, ha dato loro speranza, ha guarito ferite fisiche e morali; noi invece talvolta abbiamo timore ad uscire dal nostro ambiente, vediamo gli altri come ostacoli al nostro benessere (e al nostro “ben-avere”). Ci sono però anche giovani che fanno scelte coraggiose di vita (educatori in comunità, impegnati nel volontariato, infermieri…), che coltivano atteggiamenti d’attenzione all’ambiente (il commercio equo e solidale è, ad esempio, conosciuto e diffuso).

 

E noi animatori, come dovremmo annunciare Dio ai fidanzati?


La riflessione si sposta inevitabilmente sugli animatori, perché se è vero che non c’è nulla di più intimo e misterioso della fede, è però anche vero che la fede in qualche modo va annunciata e soprattutto testimoniata. I nostri incontri dovrebbero essere un’immagine autentica di “Chiesa”, piccola comunità, gioiosa, attenta alle persone, per aiutarci a crescere nella fede e a testimoniarla nella vita. Di qui l’esigenza di essere accoglienti nei confronti dei fidanzati, saperli ascoltare, superare le loro diffidenze, non essere prevenuti e non giudicarli, saper
cogliere i grandi segni di speranza che stanno vivendo, prospettare loro una visione più ampia che vada oltre il loro orticello (Abramo è partito verso una meta sconosciuta attirato da un ideale di cui non vedeva bene i contorni… e non era neppure ebreo!).
Dovremmo essere attenti a non ridurre Dio ai nostri parametri, non rinchiuderlo nei nostri schemi, ma saper cogliere il suo invito a liberarci dai “lacci e laccioli” per andare al cuore del suo messaggio: Lui ci ama e vuole che ci amiamo tra di noi.

Non dobbiamo aver paura a parlare di Dio: cerchiamo di far cogliere che il rapporto di Dio con il suo popolo e quindi con noi è una relazione d’amore nuziale (facile da scrivere, ma molto più difficile da realizzare, perché parlare di Dio in questo modo vuol dire avere con Lui una conoscenza profonda, intima, confidenziale, da veri “amici”). Poiché gli incontri di preparazione al matrimonio sono forse la prima occasione
che i giovani hanno di parlare tra di loro di Dio e della loro fede, possiamo partire dalle loro emozioni, dal bisogno di silenzio, dalla loro religiosità per accompagnarli in un cammino di ricerca, invitandoli a cercare Dio nella loro storia personale e di coppia, non solo adesso, ma anche dopo, nella loro vita quotidiana.
Facciamo loro (ri)scoprire la ricchezza e la bellezza della Parola di Dio, aiutandoli a coglierne l’attualità e allo stesso tempo la “rivoluzionarietà” (se fossimo capaci di vivere almeno una beatitudine…, se fossimo capaci di uscire di casa per attendere chi ha sbagliato..., se riuscissimo a pregare ogni tanto con l’intensità di Gesù..., se, se, se…, in che mondo meraviglioso vivremmo e che unione d’amore sarebbe la nostra!).

Un richiamo alla coerenza


Allo stesso tempo gli incontri devono stimolare alla verifica della nostra e della loro coerenza, non ad alcune norme, ma al messaggio di Cristo: egli è morto per noi, e noi siamo capaci di dare la nostra vita per l’altro? Siamo capaci di rinunciare a qualcosa di noi per andare verso l’altro, per far sì che la nostra coppia cresca? Questo passaggio ci costerà fatica (passione e morte), ma saremo ricompensati con una maggiore solidità di coppia, una gioia più grande (la resurrezione).
Dovremo essere capaci di testimoniare la gioia del nostro credere (Paolo VI diceva che ci vogliono più testimoni che maestri), non con parole teologiche, ma con esempi credibili di vita.
Occorre invitarli a non chiudersi all’interno della loro coppia: la società e la chiesa hanno bisogno di teste pensanti, di occhi intelligenti e di cuori attenti, di tante piccole note per comporre la sinfonia di una nuova umanità. Vivere la gioia e dare speranza dovrebbero essere l’humus dal quale far emergere la presenza di Dio. A questo dovremmo aggiungere anche lo stupore: di essere amati, malgrado i nostri limiti, di vivere in un mondo creato per noi, di camminare verso un futuro più roseo. Lui/lei è una persona meravigliosa per me ed è lì per me, insieme il futuro non ci fa paura, potremo superare difficoltà, potremo sostenerci, sorridere, gioire, dare speranza, costruire una famiglia, un mondo più a misura d’uomo.
Tutto il Vangelo deve essere presentato veramente come la “Buona Notizia”, con entusiasmo e allo stesso tempo con consapevolezza (altrimenti c’è il rischio che passata l’emozione, tutto evapori, si secchi come il seme caduto nella poca terra).
Aderire alla proposta del Vangelo vuol dire fare delle scelte, a favore di un progetto di vita che apre a prospettive di libertà.
Se l’adesione a Cristo ci aiuta a renderci liberi, ci aiuta anche a porci delle domande di senso sulla vita, sulla morte, sulla giustizia, sulla pace, sulla fedeltà, sull’accoglienza reciproca e dei figli, sull’apertura verso gli altri; a ognuno di noi toccherà poi darsi delle risposte, che a questo punto non potranno però essere slegate dal messaggio della “Buona Notizia”.